Offese su Facebook nel gruppo di mamme e babysitter
Su Facebook abbondano pagine dedicate a servizi per madri e bambini. Ne fanno parte mamme che desiderano scambiarsi recensioni, consigli e opinioni, condividere esperienze legate alla genitorialità.
In genere le iscritte sono raggruppate per provenienza geografica, così a volte diventa facile incontrarsi e diventare amiche anche in carne e ossa.
Esiste una pagina in particolare, dedicata a “Mamme e babysitter”, che raccoglie le testimonianze di tutte le donne che si trovano a gestire i piccoli, non solo le madri dunque, ma anche tate e babysitter. Ognuno dice la sua, e trova sfogo sulla pagina del social quello che spesso nella vita di tutti i giorni non è semplice esprimere a voce.
Un errore grammaticale all'origine del caso
Tra le varie iscritte alla pagina di “Mamme e babysitter” della provincia di Bologna, ci sono due amiche, molto legate. Una delle due, commenta un post pubblicato da un’altra mamma e subito a una delle lettrici non passa inosservato un errore grammaticale contenuto nel testo del commento. Lacuna scolastica o disattenzione non è dato sapere, quel che è certo è che l’attenta lettrice mette mano alla tastiera e replica al commento sottolineando il refuso.
Una decisione sbagliata a quanto pare, poiché altrettanto velocemente, il suo commento viene letto e redarguito da un’amica della prima mamma, che non accetta di vedere sbeffeggiata la sua amica.
È il 21 febbraio del 2020 e la giovane fan della pagina, appena ventuno anni, corre in difesa della sua amica offendendo con un post la donna che aveva fatto l’osservazione.
L’offesa è pesante, ed è stata letta da tutte le donne online in quel momento, oltre a poter essere stata letta potenzialmente da tutte quelle che si sono connesse successivamente fino a quando il commento non è stato rimosso.
Per difendersi dalle accuse, una volta che si trova di fronte ai carabinieri che indagano sul suo comportamento la giovane avanza una giustificazione che lascia i militi di stucco e li induce ad allargare le indagini: non sarebbe stata lei a digitare quegli insulti sulla tastiera bensì un hacker che si era impadronito del suo profilo.
Il mio profilo è stato hackerato, dichiara la donna
Non che la cosa sia impossibile né improbabile; sembra che addirittura anche lo stesso account del fondatore di Facebook sia stato hackerato, e dunque nulla di quello che finisce nella rete può dirsi davvero al sicuro.
In sostanza un cosiddetto “criminal hacker” conquista le credenziali di accesso al nostro profilo social e introducendovisi pubblica contenuti a suo piacimento copiando dati personali che possono rivelarsi fondamentali brecce nella nostra sicurezza.
Il metodo più semplice per accertarsi di questo furto è collegarsi a Facebook e non riuscire ad entrare perché il sistema segnala che la password è sbagliata. Se però noi risultiamo online, è facile che in quel momento sia proprio un hacker a divertirsi alle nostre spalle con il nostro profilo. Questo naturalmente accade quando l’hacker ha provveduto a cambiare le credenziali dopo il primo accesso.
Se invece le credenziali sono immutate, non ci resta che accorgercene dalle richieste di amicizia accettate ma non inoltrate, o da repliche a contenuti che sappiamo di non aver mai pubblicato, o ancora da localizzazioni del nostro dispositivo fuori dalla zona di reale ubicazione.
Come fare a proteggerci? Non ci resta che cambiare spesso password ed evitare di salvare i dati di accesso ai siti internet nei vari browser web.
Ovviamente gli hacker hanno a disposizione software sofisticati che consentono di recuperare i dati senza accedere fisicamente al computer della vittima, o di registrare di nascosto tutte le parole e le frasi digitate sulla tastiera del PC. Si chiamano in gergo informatico “applicazioni spia” quelle applicazioni che invece consentono di copiare le stesse informazioni non dal PC ma dal telefonino.
I carabinieri concludono le indagini
La vittima degli insulti ricevuti via Facebook si è recata presso la caserma dei carabinieri della sua città per sporgere denuncia per diffamazione. I carabinieri hanno inoltrato il fascicolo ai colleghi della stazione della città nel bolognese dove risiede la giovane.
I carabinieri della locale stazione hanno condotto le indagini e scoperto che la ricostruzione dei fatti operata dall’indagata non corrispondeva a verità e pertanto è stata denunciata d’ufficio anche per simulazione di reato.
La denuncia per diffamazione via social
La denunciante ha querelato la signora per diffamazione, producendo la risposta pubblicata sul web. Questo basta infatti perché si possa procedere con la contestazione del reato previsto dall’art. 595 c.p., alla luce della vastissima portata comunicativa dei mezzi digitali, che per la dottrina imprime un necessario bilanciamento tra tutela dell’onore e libertà di espressione garantita dall’art. 21 della Costituzione, tanto da poter aggirare anche il requisito della assenza dell’offeso altrimenti richiesta dalla diffamazione (La diffamazione via web nell’epoca dei social network, Pio Lasalvia, Cybercrime, Utet Giuridica).
La denunciata ha affermato, in difesa, di non aver scritto lei le ingiurie ma di essere stata vittima di un attacco informatico; ovvero un hacker avrebbe violato il suo profilo Facebook. Da ultimo, di fronte alle insistenze dei carabinieri, ha ammesso di essere l’autrice del commento ma di averlo fatto per difendere la sua amica dalla accusa di essere ignorante.
Si aggiunge anche la simulazione di reato alle accuse
I carabinieri della stazione locale, di fronte alla denuncia della giovane di essere stata vittima di un attacco informatico, cominciano ad investigare.
La giovane, dopo essere stata convocata in caserma per chiarire i fatti relativi alla accusa di diffamazione, aveva rivelato di essere lei ad aver creato il profilo dal quale era partito l’insulto rivolto alla signora che aveva corretto la sua amica, ma di non essere stata lei a scrivere il post, dichiarando l’esistenza di un pirata informatico che aveva clonato le credenziali e si era introdotto nel suo profilo scrivendo a posto suo la replica infuocata.
Questa dichiarazione ha costretto i carabinieri ad aprire un altro fascicolo di indagine, per i reati di accesso abusivo a sistema informatico e sostituzione di persona.
Un fascicolo chiuso poco dopo perché si è subito scoperto che quanto dichiarato non era vero, ma solo un tentativo di scriminarsi dalle accuse. I carabinieri non hanno dovuto neppure procedere a controlli di carattere informatico, è bastato che un ragazzo molto amico della ragazza confermasse che era stata proprio lei, alla sua presenza, a scrivere il post offensivo.
Oltretutto, sulla ragazza pendeva un precedente proprio per lo stesso identico reato. Tempo addietro era stata già denunciata per diffamazione, per aver pubblicato su Facebook un post offensivo da un profilo poi cancellato.
La fattispecie aggravata del delitto di diffamazione
Scrivere insulti sulla pagina Facebook integra una ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3. Nella specie, si tratta di offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità diverso dalla stampa; una condotta molto lesiva perché potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato di persone fuori dal contesto di una attività di informazione professionale diretta al pubblico.
Inoltre, dichiarare formalmente l’esistenza di un reato di fronte alla Autorità Giudiziaria (o simularne l’avvenimento) sapendo che questo reato non è mai stato commesso, comporta a sua volta la contestazione di un delitto autonomo, la simulazione di reato.
Questo è quello di cui dovrà rispondere la giovane di fronte al giudice in caso di rinvio a giudizio alla chiusura delle indagini.
L’impatto sul sistema giudiziario
Un fenomeno che al di là delle singole procedibilità ha un grande rilievo in termini di impatto sul sistema giudiziario. Sono crescenti infatti le denunce per diffamazione a mezzo social, non solo tramite Facebook, ma anche Instagram, Twitter, o tramite recensioni su TripAdvisor tanto per citarne alcuni. I social assicurano a chiunque il diritto di espressione, che spesso acquista una dimensione patologica, tanto da essere coniata una terminologia ad hoc: haters o leoni da tastiera.
Un singolare precedente della Procura di Roma
Va controcorrente la decisione della Procura di Roma, che in un caso analogo ha archiviato le indagini – decisione subito opposta davanti al GIP dalla persona offesa – stabilendo che offendere sui social network non costituisce reato, perché è un modo di sfogarsi o di scaricare lo stress.
Le espressioni denigratorie sui social, secondo il magistrato della Capitale, godono di scarsa credibilità e dunque non hanno portata diffamatoria agli occhi di terzi.
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