Vittima del Covid sul luogo di lavoro - Inail e Procura

La prima vittima Covid collegata al luogo di lavoroLa pandemia da Covid-19, dopo più di un anno dalla sua comparsa sulla scena sanitaria mondiale, ha assunto i contorni di un dramma non solo clinico, ma anche sociale ed economico.

Pur nella gravità dei numerosissimi posti di lavoro cancellati e della rinuncia a fasi importanti della vita come lo studio in presenza, la situazione più dolorosa che la pandemia trascina con sé è quella della sofferenza dovuta alla malattia e alla morte come frequente conseguenza del contagio.

Trasformati in eroi dalla opinione pubblica, gli operatori sanitari effettivamente hanno combattuto in prima linea per lavoro o per volontariato, comunque per una scelta effettuata quando non avrebbero potuto mai immaginare che nella vita sarebbero stati costretti ad operare in simili condizioni. Spesso si sono trovati a fronteggiare, soprattutto all’inizio, situazioni di emergenza senza avere a disposizione le giuste istruzioni o i dispositivi adeguati, più per impreparazione che per negligenza dei loro superiori.

Una delle prime vittime tra gli operatori sanitari è stato Giorgio Scrofani, un cinquantaseienne della provincia di Pesaro, autista di ambulanze in forza allo staff della Potes di Calcinelli. Tutti i giorni avanti e dietro a caricare malati allo stremo delle forze respiratorie, con il cuore in gola per la paura di non riuscire a salvare vite umane, si è trovato a fare i conti nel modo peggiore con lo stesso virus che ha cercato di combattere.

La drammatica evoluzione della malattia da Covid

Giorgio era un uomo dal fisico imponente che sembrava immune alle malattie. Aveva un carattere amichevole, intratteneva i malati nell’ambulanza con aneddoti e battute, cercando di allentare la tensione emotiva nel tragitto lungo l’Ospedale.

Il 30 marzo del 2020 Giorgio Scrofani muore nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale di Pesaro. Per due settimane era rimasto immobile e quasi incosciente nel letto, intubato e isolato da tutti, amici colleghi e famigliari. Le norme rigorosissime in materia di prevenzione del contagio, non gli hanno consentito neppure di ricevere l’ultimo abbraccio della famiglia, né di avere un funerale nella sua città.

I primi sintomi del contagio risalgono al 3 marzo ma resiste per altri quattro giorni al lavoro prima di restare a casa. Il quadro sintomatico peggiora ma due medici gli consigliano di non andare in ospedale e aspettare che la malattia faccia naturalmente il suo decorso. Ma le condizioni sono decisamente gravi e il 15 marzo passa dal pronto soccorso direttamente in rianimazione con una temperatura corporea di 40 gradi e una brutta polmonite bilaterale che non gli lascia scampo, non prima di aver mandato l’ultimo messaggio ai suoi amici: "Mi portano in rianimazione. Spero di potervi rivedere tutti".

Giorgio è il quinto soccorritore del 118 a morire in Italia dopo il diffondersi del Coronavirus ed è il primo morto sul lavoro riconosciuto nelle Marche come vittima del Covid19 in ambito sanitario.

L’INAIL riconosce la morte come causa di lavoro

La morte del soccorritore desta apprensione e allarme tra i suoi colleghi, rendendoli consapevoli, a poche settimane dall’insorgere dell’emergenza, di essere vulnerabili e esposti più di ogni altro lavoratore al pericolo di un contagio.

Giorgio Scrofani era alle dipendenze della Croce Europa, il cui legale rappresentante in qualità di suo datore di lavoro ha immediatamente denunciato il fatto all’INAIL, come avviene tutte le volte che un lavoratore muore durante lo svolgimento delle mansioni professionali. L’INAIL ha riconosciuto che la scomparsa di Scrofani è una morte sul lavoro e questo è stato il punto di partenza di una azione legale tesa a dimostrare che la morte poteva essere evitata se solo la Croce Europa e la ASUR avessero adottato tutte le misure necessarie a proteggere i lavoratori esposti al rischio.

Attraverso il legale di fiducia, la famiglia ha presentato un esposto in Procura.

L’esposto alla Procura di Pesaro come strumento per ottenere chiarezza e giustizia

Una azione simile alla denuncia, nella quale però si espongono i fatti che sarà poi la magistratura a valutare se sono perseguibili penalmente d’ufficio.

In presenza di una fattispecie penalmente rilevante, come la morte di un lavoratore, il primo aspetto da tenere in considerazione è valutare se è stato fatto tutto il possibile perché la morte potesse essere evitata da parte del suo datore di lavoro. Una volta appurato, con indagini ed analisi di documenti e testimonianze, che l'infezione poteva essere avvenuta a causa della mancata fornitura di dispositivi di protezione, la famiglia ha appunto elaborato l’esposto e lo ha presentato in Procura, aspettando poi che la magistratura effettuasse le indagini.

Nel frattempo, il pool difensivo assunto dalla famiglia ha dato mandato ad un medico legale, professore associato di Medicina legale all’Università Politecnica delle Marche, di stabilire con competenza tecnica, le circostanze della morte.

Nelle argomentazioni contenute nell’esposto, elementi che dimostrerebbero il pieno coinvolgimento dell’Asur, a cui la famiglia imputa la completa assenza di protocolli che avrebbero dovuto disciplinare le mansioni di Scrofani durante la prima fase epidemica, l’inadeguatezza dei locali in cui tutti gli operatori transitavano prendendo e smontando dal lavoro e il mancato utilizzo dei dispositivi di protezione di sicurezza individuale durante il servizio, tanto che risulterebbe che gli stessi non avevano nemmeno un termometro portatile per misurare la febbre ai pazienti che caricavano in ambulanza né guanti.

A conclusione delle indagini, la Procura stabilisce se ci sono indizi di colpevolezza e, disposto il rinvio a giudizio, si può iniziare il processo nei confronti dell’indagato divenuto nel frattempo imputato, o se si debba al contrario disporre l’archiviazione delle indagini.

Una decisione che per diventare definitiva deve essere rimessa alla valutazione del Giudice per le indagini preliminare, al quale sarà demandata la decisione di accogliere le risultanze del PM o le argomentazioni della famiglia e decidere così per la prosecuzione delle indagini.

La Procura chiede l’archiviazione delle indagini, la parola al GIP

Tra le due ipotesi, nel caso dell’autista pesarese, la Procura di Pesaro ha deciso per l’archiviazione delle indagini a carico del datore di lavoro, il legale rappresentante della Croce Europa indagato per omicidio colposo, disposta con decreto dell’8 aprile 2021. La famiglia si è opposta chiedendo la valutazione di ulteriori elementi di prova e la riapertura delle indagini. A fianco della famiglia l’Associazione nazionale invalidi e mutilati sul lavoro che ha dichiarato che si costituirà parte civile nel caso in cui si terrà il processo.

Le motivazioni della Procura: scarse linee guida nei primi tempi dell’emergenza

Il PM non ha individuato elementi di responsabilità a carico del datore di lavoro, non avendo potuto accertare senza margine di dubbio che Giorgio Scrofani si sia contagiato durante l’attività per le negligenze del datore di lavoro.

Per la Procura di Pesaro si è trattato del primo fascicolo aperto per omicidio colposo del datore di lavoro a seguito di decesso del lavoratore per contagio da Covid-19, ma non si è dimostrata disposta ad accogliere le tesi dell’avvocato della famiglia.

Le prove raccolte durante le indagini, non sono state giudicate sufficienti ad evitare la richiesta di archiviazione "ritenendo che gli elementi raccolti non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio e che neppure una perizia potrebbe aggiungere ulteriori elementi decisivi a carico dell’indagato".

Il consulente della famiglia aveva sostenuto con ragionevole sicurezza che il contagio era avvenuto sul luogo di lavoro tra il 3 e il 5 marzo. A sostegno di questa convinzione, l’esame dei tabulati telefonici dai quali sarebbe emerso che Scrofani in quei giorni si sarebbe spostato solo per lavoro.

Per gli inquirenti pesaresi invece, le prove non escludono che l’autista non abbia preso il Covid in luoghi diversi da quelli legati alla sua attività o che il suo datore non gli abbia effettivamente fornito tutti i dispositivi necessari come dimostrerebbero fotografie scattate nei giorni dei suoi interventi con l’ambulanza, dove egli è ritratto con mascherina, visiera e camice.

Un ulteriore elemento valutato a favore del datore di lavoro dalla Procura, è che nei primissimi giorni dell’emergenza sanitaria le linee guida regionali continuavano a disporre soccorsi protetti solo per quei soggetti che manifestavano febbre e altri sintomi influenzali.

Infatti, era ancora ignoto che gli asintomatici potessero essere veicolo di contagio. Nulla esclude, quindi, a detta della Procura, che Scrofani possa essersi contagiato in soccorsi non Covid venendo a contatto con un soggetto positivo ma senza sintomi. Per un intervento che non aveva a che vedere direttamente con il Covid, come ad esempio un incidente stradale.

Tags: Dir. Penale