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Falsità ideologica commessa nella dichiarazione di successione - Cassazione penale 17206/2015

falsità ideologica commessa nella dichiarazione di successioneLa Corte di Cassazione penale con sentenza depositata in cancelleria il 27 aprile 2016 ha rigettato il ricorso proposto da due soggetti, imputati di avere falsamente redatto un testamento olografo a firma di una defunta facendolo registrare al notaio, di avere falsamente attestato nella dichiarazione di successione di essere gli unici eredi della defunta, senza menzionare coloro che invece erano i legittimi eredi, e di essersi introdotti all'interno dell'abitazione della defunta senza consenso dei legittimi eredi, rimuovendo forzatamente la vecchia serratura e installando una nuova serratura per impedire ai legittimi eredi di entrare.

La strana sorpresa alla morte dell’anziana zia

Nel 2009 due fratelli si recano dalla polizia denunciando di non riuscire più ad entrare nell’abitazione di una vecchia zia, deceduta qualche tempo prima, dove si recavano di tanto in tanto aprendo con le chiavi in loro possesso.

Secondo loro, qualcuno aveva cambiato la serratura senza chiedere alcun permesso. Un sospetto confermato dalle dichiarazioni di alcuni vicini di casa, che raccontano ai fratelli di avere visto un giovane sui trent’anni davanti all’abitazione della vecchia zia. Questo giovane, aveva dichiarato ai vicini di essere un nipote della signora defunta e di essere andato presso l’abitazione per sostituire la serratura.

Denuncia per lo svuotamento del conto corrente

I due fratelli a distanza di qualche mese, presentano ancora una denuncia alla polizia, e sempre per vicende legate alla morte della vecchia zia. Ella aveva acceso un conto corrente presso la filiale di paese di una grande Banca, sul quale riposavano i risparmi di una vita e veniva accreditata la pensione mensile.

Non avendo molte ragioni di spesa fuori dall’ordinario, la zia aveva accumulato un bel gruzzolo sul conto corrente.

Alla sua morte, i fratelli si recano in banca per chiudere il conto corrente e si avvedono che è stato svuotato ed in esso non c’è più traccia dei risparmi.

Né gli impiegati allo sportello né i funzionari degli uffici accettano di fornire loro spiegazioni ma i due fratelli continuano ad insistere per ottenere una spiegazione.

Alla fine, dopo molte difficoltà di carattere burocratico, la direttrice della filiale, mossa a compassione, decide di rivelare loro che qualche tempo addietro si erano presentati presso il suo ufficio gli eredi della loro zia ed avevano prelevato tutte le somme depositate sul conto corrente.

Queste persone si erano presentate esibendo un testamento scritto di proprio pugno dalla zia e pubblicato alla sua morte dal notaio presso il quale era stato custodito, nel quale venivano nominate eredi universali.

Fin qui nulla di strano, sembrerebbe, al punto da dover sporgere denuncia. Ma ai fratelli qualcosa non quadra fin dall’inizio. Chiedono al notaio di poter visionare il testamento e la prima stranezza di cui si accorgono è che la zia avrebbe scritto il testamento il giorno prima della sua morte.

In realtà, le condizioni di salute dell’anziana erano così gravi da non poterle permettere di scrivere, e men che meno di ragionare lucidamente disponendo dei suoi beni a favore di chicchessia.

Ella era infatti ultranovantenne al momento della morte e affetta da una seria forma di demenza da Alzheimer e da grave cardiopatia, tanto da essere deceduta presso la struttura dove si trovava ricoverata, in stato soporoso e priva di conoscenza, ormai da tempo.

Uno dei due fratelli si accorge addirittura che la grafia con la quale è vergato il testamento non somiglia affatto alla scrittura della zia come loro conoscevano.

I due fratelli cominciano a chiedere informazioni. Vengono a sapere che appena dopo la pubblicazione del testamento i presunti eredi si sono recati all’Agenzia delle Entrate e hanno presentato la dichiarazione di successione così da potersi recare in Banca ed estinguere il conto prelevando il saldo di quasi quarantamila euro.

Ma quello che risulta ancor più strano, tuttavia, è che la zia aveva solo due parenti al mondo e sono proprio i due fratelli, ai quali non sembra perciò possibile che vi siano altri eredi.

Perizie grafologiche e medico-legali sul testamento

Gli impostori vengono subito smascherati: un accertamento grafologico dimostra che la grafia del testamento non corrisponde alla scrittura della defunta.

A loro discolpa, essi raccontano di aver trovato in casa una copia del testamento, dopo che era stata recapitata per posta alla loro madre, e di aver gettato via la busta dopo molto tempo che la lettera giaceva tra la corrispondenza di casa inevasa. Dichiarano inoltre di essere stati colti di sorpresa e di avere addirittura pensato ad uno scherzo perché ignoravano rapporti di parentela con la signora che disponeva dei sui averi in loro favore.

Nonostante non vi fossero legami genealogici, essi decidono ugualmente di recarsi in casa della signora defunta e di cercare tra i documenti qualcosa che testimoniasse un legame tra loro.

Trovano le prove che tra la vecchia zia e i nipoti, i due fratelli, non è mai corso buon sangue e decidono così di accettare l’eredità a posto degli unici eredi, quelli veri.

L’impugnazione della sentenza di appello di Perugia

Con sentenza emessa in data 7.11.2014 la Corte d'Appello di Perugia dichiarava la nullità della sentenza di primo grado, relativamente alla condanna per il capo b), essendo ravvisabile la truffa, e ripristinava quanto al capo a) l'originaria qualificazione del fatto confermando nel resto la prima sentenza. Gli imputati proponevano ricorso per cassazione.

Il difensore degli imputati affida a sei diversi motivi l’impugnazione

Il Pubblico Ministero conclude per l'inammissibilità del ricorso.

Il difensore delle parti civili ha concluso associandosi alle richieste del PM.

Il difensore degli imputati propone sei motivi di ricorso per cassazione: con il primo motivo, violazione ed erronea applicazione dell'art. 485 c.p. e 533 c.p.p., in quanto i Giudici d'appello non hanno correttamente valutato il cumulo indiziario acquisito al processo; con il secondo motivo, violazione dell'art. 129 c.p.p. per non aver assolti gli imputati per insussistenza del fatto e per aver omesso di dichiarare improcedibile il reato in ragione della tardività della querela; con il terzo motivo, violazione ed erronea applicazione dell'art. 483 avendo ritenuto che la dichiarazione di successione fosse da considerare alla stregua di un atto pubblico e che gli imputati avevano dichiarato il falso; con il quarto motivo, violazione ed erronea applicazione dell'art. 633 c.p. per omessa motivazione circa la sussistenza del dolo specifico del reato contestato; con il quinto motivo, la violazione dell'art. 125 c.p.p., registrandosi nella sentenza impugnata una motivazione apparente; con il sesto motivo, l'illegittima conferma dell'entità della provvisionale.

La Cassazione: Falsità del testamento

La Corte premette preliminarmente che buona parte delle doglianze in fatto sono inammissibili perché si traducono in una diversa valutazione delle risultanze processuali e non già in un vizio di motivazione.

Essi lamentano l'insussistenza dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 485 c.p. e art. 491 c.p., riguardante la formazione del falso testamento olografo, ma la Corte di Appello ha correttamente statuito sul punto.

La sussistenza dell'elemento materiale, ossia la falsità del testamento, risulta acclarata dall’accertamento tecnico che ha confermato le condizioni di salute incompatibili con la redazione dell’atto il giorno prima del decesso e la mancata corrispondenza tra grafia dell’atto e quella della de cuius.

La sussistenza dell’elemento soggettivo è dimostrata nella ricorrenza del dolo, consistente nel fine di trarre un vantaggio dal delitto di falso in scrittura privata. Tale vantaggio risulta dimostrato dal fatto che gli imputati hanno utilizzato il testamento per entrare in possesso del denaro ed occupare la casa della defunta.

Il secondo motivo è manifestamente infondato poiché la Corte territoriale ha adeguatamente dato conto delle ragioni per le quali ha ritenuto che la sentenza impugnata andasse annullata, per diversità del fatto descritto nella contestazione essendo indubbia la configurabilità del reato di cui all'art. 640 c.p., art. 61 c.p., n. 7. Anche la lamentata tardività della querela è infondata avendo la sentenza impugnata dato conto della sua tempestività.

La dichiarazione di successione ha rilievo pubblicistico anche se è compilata dal privato

Con il terzo motivo di ricorso si contesta la configurabilità del delitto di cui all'art. 483 c.p. perché la dichiarazione di successione sarebbe un atto di esclusivo rilievo privatistico a fini fiscali e non un atto diretto a provare la qualità di erede testamentario. La Corte d’Appello, a parere della Cassazione, ha però correttamente evidenziato che la contestata falsità è correlata all’attestazione di essere eredi contenuta nella dichiarazione di successione, che una volta presentata al pubblico ufficiale diventa il primo atto di un procedimento amministrativo, assume natura pubblica e diviene oggetto della potestà certificativa ed autoritativa del pubblico ufficiale.

La dichiarazione di successione è un atto del privato con effetti pubblicistici

L’obbligo del dichiarante di enunciare il vero dipende dagli effetti "pubblicistici" di natura fiscale (ammontare delle imposte, agevolazioni fiscali, etc.) che la dichiarazione di successione determina.

Non viene ritenuta accoglibile la tesi di una suddivisione in più fasi della dichiarazione di successione, con una parte procedimentale anteriore alla presentazione del pubblico ufficiale sottratta all’obbligo di enunciare il vero. Essa non ha infatti una sua funzionalità indipendente dalla presentazione e dalle conseguenze pubblicistiche che da essa derivano ma è funzionalmente legata al momento in cui viene presentata all'Agenzia delle Entrate.

E pertanto il delitto previsto dall'art. 483 c.p. sussiste qualora l'atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è stata trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati e, cioè, quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all'atto nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente.

Il dolo specifico del reato di cui all'art. 633 c.p. risulta poi dall’essersi gli imputati introdotti nell'immobile della de cuius per raccogliere notizie, dall’essersi recati presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari per verificare l'assenza di denunce successorie, dall’aver occupato l'immobile sostituendo la serratura e comportandosi come proprietari, dalla redazione della falsa scheda testamentaria.

Parimenti rigettato il quinto motivo di impugnazione sulla violazione dell'art. 125 c.p.p. per motivazione apparente perché generico in violazione dell'art. 581 c.p.p., lett. c) e il sesto motivo di ricorso riguardante la conferma della provvisionale a carico degli imputati.

Le autocertificazioni impongono l’obbligo di dichiarare il vero

La punibilità di chi presenta un testamento falso ai sensi dell’art. 483 cp è motivata dal fatto che esso si accompagna alla presentazione della relativa dichiarazione di successione presso l’Agenzia delle Entrate. Sebbene tale dichiarazione sia compilata dal privato, la natura di tale atto è pubblica e non privata poiché contiene autocertificazioni che impongono al dichiarante di affermare il vero.

La tutela civile contro il testamento falso

Oltre alle conseguenze di carattere penale, la pubblicazione di un testamento falso può esporre al rischio di azioni giudiziarie in sede civile da parte degli eredi pretermessi.

In questo caso, essi avranno titolo per richiedere una sentenza di annullamento, o per proporre una domanda volta alla dichiarazione di nullità delle clausole ritenute false.

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