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Aggravante per appartenenza a bande giovanili sudamericane

aggravante appartenenza a bande giovanili sudamericaneLa Corte di cassazione penale, con sentenza del 6 giugno 2018 n. 25535, si è pronunciata su un fatto di cronaca avvenuto in un parco cittadino di Milano, ritrovo di bande composte da giovani sudamericani dediti a violenze.

In questo contesto si colloca il violento regolamento di conti ai danni di un ragazzo, lasciato a terra quasi morto, e il conseguente processo ai danni degli aggressori.

In punto di diritto, emerge che l’appartenenza alle bande giovanili, nelle quali è inevitabile aderire a valori estremi quali l’uso della forza e la vendetta armata nei confronti delle fazioni contrapposte, si configura come un futile motivo quando sia la causa scatenante dell’aggressione. Sulla scia di questo principio, i protagonisti della vicenda sono stati condannati alla reclusione per concorso in tentato omicidio aggravato dall'avere agito per motivi abbietti e futili, e nel porto ingiustificato di un coltello.

Criminalità di strada

È la sera del 25 luglio 2015 e a Milano, calato il sole e diminuita l’afa, se ne approfitta per fare due passi al parco, dove l’ombra ha mantenuto un gradevole fresco per tutto il giorno.

Molte persone passeggiano per i vialetti e gran parte di queste è abituata a incrociarvi ragazzi, prevalentemente sudamericani, che vanno in gruppo. Sono affiliati alle varie bande giovanili che imperversano con i loro riti iniziatici violenti, sulla scia delle famigerate bande salvadoregne.

Quello che forse non è diventato una consuetudine, è il trovarsi di fronte ad una scena di aggressione come quella cui numerosi testimoni hanno assistito.

Due gruppi si fronteggiano: un paio di membri dell’uno vanno incontro ad un ragazzo che si separa dal resto dell’altro.

I due ragazzi che si muovono assieme sono affiliati alla gang “Barrio 18”, l’altro si fa chiamare “Salvatrucho”, in onore alla temibilissima e antagonista “Mara Salvatrucha” che insanguina le strade di El Salvador.

Si appartano e cominciano a discutere ma subito dopo alle grida fanno seguito colpi inconfondibili e lamenti.

Uno di essi è accasciato a terra, insanguinato, caduto sotto diverse coltellate. Su di lui un ragazzo ha in mano il coltello, mentre l’altro continua a calciarlo e a prenderlo a pugni nonostante la vittima sia ormai inerte.

Per fortuna i suoi compagni, allarmati dalla violenza con cui era degenerata la discussione, lo hanno salvato chiamando polizia e ambulanza.

Al pronto soccorso, dove il ferito arriva in codice rosso, si rivela una situazione drammatica: fendenti micidiali e plurimi uniti a calci e pugni ripetuti, tutti nell’addome, hanno provocato una seria lesione dell’intestino, che dovrà essere asportato in parte.

Atti di forza e violenza come riti iniziatici

La violenza insita nel gesto altro non è se non una dimostrazione di forza, dal momento che le bande latine affermano il proprio valore in base alla durezza della prova di iniziazione dei membri: comportamenti brutali, prevaricatori, spavaldi, sono le descrizioni dei report giornalistici che raccontano l’inferno nelle strade sudamericane, da qualche anno una realtà di quelle milanesi seppure, per fortuna in misura minore.

A Milano le bande sono composte da salvadoregni poco più che minorenni, dotati di una vera e propria organizzazione criminale a mano armata che controlla le periferie dove vivono gli altri latini, esattamente come accade nei loro paesi d’origine: pistole, coltelli, machete, acquistati con i proventi dello spaccio di droga e delle rapine. Sorvegliano una zona di quarantamila abitanti, con parchi, un tempo polo multiculturale.

Lavano con la violenza più feroce gli sgarri tra una gang e l’altra ma anche la mancanza di rispetto delle regole all’interno della stessa cellula, facendola pagare alle donne dei membri, stuprate e picchiate. Non è facile essere affiliati alle bande: bisogna superare un rito di iniziazione all’altezza del gioco e non è raro che consista nel portare a termine un’esecuzione, nel commettere un omicidio o nel resistere a pesanti pestaggi.

Le strade di Los Angeles battezzano le gang sudamericane

L’antagonismo tra le due gang più note, Barrio 18 e Mara Salvatrucha 13, risale ai tempi in cui i ragazzi fuggivano dalla guerra civile nel Salvador per rifugiarsi negli Stati Uniti e per resistere alla violenza di strada si aggregarono in bande scegliendo il nome delle strade di Los Angeles dove si trovavano. Tornati in Sudamerica, hanno esportato il fenomeno prima negli altri stati latini e poi in Europa.

Ricorsi rigettati dalla Cassazione

La Corte di cassazione penale respinge i ricorsi degli imputati avverso la sentenza della Corte di appello di Milano del 23 maggio 2017 con la quale veniva confermata la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Milano che aveva condannato gli imputati ritenendoli responsabili di concorso nel tentato omicidio aggravato dall'avere essi agito per motivi abbietti e futili, e nel porto ingiustificato di un coltello.

Gli imputati contestano il concorso

Gli imputati hanno proposto distinti ricorsi. In uno viene lamentata la erronea applicazione degli artt. 56, 575 c.p. e apparenza e contraddittorietà della motivazione quanto alla conferma della qualificazione giuridica del fatto di cui al capo A) come tentato omicidio poiché la vittima non è mai stata in pericolo di vita e l’intervento dei suoi amici non era finalizzato a cessare il pestaggio, bensì ad evitare la fuga degli aggressori.

L'appartenenza ai valori della banda è questione di onore? 

Viene altresì lamentata la erronea applicazione dell'art. 61 n. 1 c.p. perché non è stata dimostrata l’appartenenza a una delle bande e perché comunque la contrapposizione di esse non è sufficiente per far ritenere che il tentativo di omicidio di L.F. sia stato causato da un motivo futile in assenza di ogni riferimento all'antecedente psichico della condotta.

Contestata la mancata qualificazione del reato in lesioni 

Il secondo imputato ha dedotto inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 40, 56, 575 c.p. per mancanza di concorso nel tentativo di omicidio, essendo la condotta indipendente. Inoltre, avere attinto la vittima in una zona del corpo priva di organi vitali come il basso addome, avrebbe dovuto qualificare il reato come lesioni personali.

Ha dedotto inoltre: inosservanza o erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità in relazione al disposto dell'art. 61 n. 1 seconda parte c.p. poiché l’appartenenza ai valori della cultura latina, che hanno determinato a compiere una deliberata aggressione, non può essere considerato futile motivo in relazione al contesto sociale dell’imputato; mancanza di motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 202, 203, 235 c.p. relativamente alla misura di sicurezza dell'espulsione poiché il ricorrente è regolarmente presente sul territorio dello Stato.

Coltellate calci e pugni al volto

Il giudizio di legittimità affonda nelle coincidenti ricostruzioni operate nell’ambito dei due giudizi di merito.

Preliminarmente, è confermata la ricorrenza del concorso.

Dei due imputati, uno aveva sferrato le coltellate all'addome e l’altro lo aveva colpito con calci e con pugni al volto, contestualmente, mantenendo la reciproca consapevolezza delle diverse azioni.

Dalle testimonianze non è stato possibile evincere un ordine temporale e di priorità di una condotta rispetto all'altra e nemmeno scinderle: i due risultano aver agito nello stesso contesto spazio-temporale con gli strumenti a disposizione, cooperando nell'aggredire la stessa vittima.

No alle lesioni se la morte non avviene per fattori esterni

La qualificazione giuridica della condotta in tentato omicidio e non in quella più lieve di lesioni personali volontarie viene ritenuta inoppugnabile in ragione dell’uso di uno strumento idoneo a provocare la morte, della pluralità dei colpi penetrati in profondità, della forza con cui erano stati sferrati in una zona anatomica densa di organi vitali, dell'aggressione portata congiuntamente da due assalitori ed insistita nonostante il soggetto passivo fosse inoffensivo perché disarmato.

Anche la valutazione delle risultanze probatorie alla luce delle quali l’intervento degli amici viene ritenuto salvifico perché hanno atterrato uno degli assalitori e costretto l'altro a desistere dal continuare a percuotere l’amico, viene ritenuta giuridicamente corretta secondo l'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, per il quale non è dalla severità delle lesioni, oppure dall'impossibilità di realizzare il proposito criminoso per l'interferenza di fattori esterni all'agente – come l'intervento di contrasto di terzi – che può giudicarsi l'idoneità dell'azione a cagionare l'evento morte, dovendo valutarsi tale profilo “ex ante” in base alle sue caratteristiche ed alle modalità di realizzazione. Dunque, è stata ravvisata correttamente l’adeguatezza causale e l'attitudine a determinare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto.

Il dolo alternativo tra morte e serio ferimento

La Cassazione ritiene congruamente motivato l’accertamento della componente psicologica del reato, individuata nel dolo alternativo visto l’intento di cagionare un evento molto grave in termini alternativi di morte o di serio ferimento. Mancando una confessione, la prova del dolo è stata desunta partendo dagli elementi della condotta: il comportamento antecedente e susseguente al reato; la natura del mezzo usato e le sue caratteristiche intrinseche di potenzialità lesiva; le parti del corpo della vittima attinte; la reiterazione dei colpi; le ragioni della mancata verificazione dell'evento.

Il diverso atteggiamento psicologico dell'agente e la differente potenzialità dell'azione lesiva hanno consentito di escludere il reato di lesioni personali, poiché la carica offensiva dell’azione non si è esaurita nell'evento prodotto, ma tendeva a cagionare un esito ulteriore e più grave irrealizzato per ragioni estranee alla volontà dell'agente.

La violenza come forma di supremazia è un motivo futile

Quanto alla sussistenza della circostanza aggravante, considerato che l’azione era motivata dall’affermazione del predominio sull'interlocutore per spavalderia, la mancanza di una ragione di natura economica, il contesto di supremazia imposta con gesti violenti tipici delle bande sudamericane, hanno determinato correttamente la qualificazione del motivo come futile.

Su questo punto le sentenze di merito concordano: entrambe hanno negativamente apprezzato la consistenza del movente, stimato banale in riferimento all’appartenenza ad una banda che riconosce come valori positivi la violenza e l'uso della forza quale forma di affermazione della personalità individuale, ma anche in riferimento alla sola imitazione di moduli comportamentali tipici, utilizzati per dare libero sfogo ad istinti aggressivi ed antisociali che si pongono in contrasto con i valori fondamentali riconosciuti dall'ordinamento giuridico, che tutela in primo luogo la vita, la sicurezza e la libertà personale.

In ultimo, nessuna revisione della misura di sicurezza dell'espulsione per la riscontrata pericolosità sociale, anche se lo straniero è munito di permesso di soggiorno, atteso il preminente interesse dello Stato all'allontanamento di una persona che, commettendo reati di una certa gravità, si è rivelata incline a delinquere e, dunque, socialmente pericolosa.

La messa alla prova come antidoto

L’estensione preoccupante del fenomeno delle bande giovanili dei minorenni provenienti dall’Ecuador o dal Salvador, che soprattutto a Milano e Genova commettono reati di estrema gravità connessi a stili di vita e riti associativi, ha interrogato il mondo della giustizia minorile.

Attraverso le varie pronunce di merito dei Tribunali per i Minorenni e di quelli ordinari, si è arrivati a ravvisare nel percorso di messa alla prova un antidoto al rito della banda. Questa misura, unitamente all’espulsione di alcuni componenti maggiorenni, ha fatto sì che negli ultimi anni il fenomeno si sia molto attenuato permettendo ai ragazzi l’integrazione sociale e l’inserimento in contesti normali.

Un giudizio sulle Pandillas genovesi

Recentemente, con sentenza n. 26156 del 13 giugno 2019, la Cassazione penale si è espressa sulla concessione del beneficio della sospensione del processo con messa alla prova nei confronti di due giovani appartenenti alle Pandillas, bande sudamericane presenti a Genova, accusati di omicidio.

La Corte ha stabilito che il giudizio prognostico sulla rieducazione del minore va basato sul tipo di reato commesso al fine di valutare se debba considerarsi un episodio del tutto occasionale e non, invece, rivelatore di un sistema di vita. In questo secondo caso, si esclude un giudizio positivo sull'evoluzione della personalità del minore verso modelli socialmente adeguati con conseguente rifiuto di concessione del beneficio.

Tags: Milano, Dir. Penale

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